Nella fabbrica di Stradivari


Le Città della Musica / Cremona,
dove i celebri violini si continuano a costruire come nel Settecento.


di Ettore Mo
inviato speciale del Corriere della Sera

Cremona, 24 maggio 1987


Premessa
Cronologia di un incontro 
di Franco Feroldi


Verso la fine di maggio del 1987 arriva a Cremona il giornalista Ettore Mo (tra i più famosi corrispondenti di guerra, inviato speciale del «Corriere della Sera»), per un servizio su Stradivari e la liuteria a Cremona. Il maestro liutaio Francesco Bissolotti, avvisato per tempo dal reporter, mi telefona e reclama la mia presenza e io, a mia volta, coinvolgo il giornalista cremonese Elia Santoro per un supporto di consulenza storica.

Alle nove e trenta ci troviamo tutti nella Saletta dei Matrimoni del Palazzo Comunale, dove il conservatore Andrea Mosconi (come ogni mattina) è intento ad “allenare” i violini della Collezione Civica e illustra a Mo la storia e le caratteristiche di ogni singolo strumento. Ci trasferiamo quindi nella bottega di Bissolotti in via Milazzo 18 e trascorriamo l’intera mattinata in un’amabile, ma vivace, conversazione sulla liuteria classica cremonese, sul metodo di costruzione dei violini ispirato a quella tradizione e sull’incessante attività di promozione avviata dall’Aclap, l’Associazione Cremonese Liutai Artigiani Professionisti, di cui Bissolotti è il Presidente.

Verso le 13, mi offro di accompagnare Mo a pranzo, per una doverosa sosta prima della ripresa nel pomeriggio. Lo porto in quello che per me è il santuario del bollito cremonese, il rinomato ristorante «Centrale» della signora Flora Norma Ruggeri in vicolo Pertusio, attivo dal 1960 nel cuore di Cremona, a due passi dal Torrazzo, in uno degli angoli più caratteristici della città del violino. Buon cibo e tante, illuminanti, parole. Mo mi racconta episodi della sua vita, di reportage in giro per il mondo, delle sue passioni e delle sue origini professionali: sguattero e cameriere a Parigi e Stoccolma, barista nelle Isole della Manica, bibliotecario ad Amburgo, insegnante di francese (senza titoli) a Madrid, infermiere in un ospedale per incurabili a Londra e infine steward in prima classe su una nave della marina mercantile britannica. Nel 1962 si presenta al corrispondente da Londra del Corriere della Sera, Piero Ottone, per ottenere un posto come giornalista e viene assunto nella sede londinese. Da lì, Mo inizia la sua brillante carriera, coronata da decine e decine di premi e riconoscimenti, e da numerosi libri o, meglio, da numerosi splendidi articoli scritti per il Corriere e raccolti in forma di libro. Il suo campo sono i grandi servizi speciali, le storie di ogni angolo del mondo.

Dopo pranzo, lo accompagno per i vicoli del centro storico, con una puntatina golosa nel negozio «Sperlari» di via Solferino, in Cattedrale, ai Giardini Pubblici di piazza Roma sulla tomba di Stradivari, a Palazzo Trecchi e, in corso Garibaldi, davanti alla casa nuziale di Stradivari, dove il grande liutaio visse con la prima moglie Francesca Ferraboschi per poi trasferirsi, con la seconda moglie Antonia Zambelli sposata dopo la morte della Ferraboschi, nella casa vicino alla chiesa (poi demolita) di san Domenico.

Nel tardo pomeriggio riprendono le interviste da Bissolotti. Il frutto di tanto parlare e di altri incontri del giornalista, nel giorno successivo, è questo reportage di un’intera pagina pubblicato da Ettore Mo sul «Corriere della Sera» del 24 maggio 1987 con il titolo «Nella fabbrica di Stradivari», l’occhiello «Le Città della Musica / Cremona, dove i celebri violini si continuano a costruire come nel Settecento» e il sommario «L’artista, morto 250 anni fa, ha oggi un erede in Francesco Bissolotti: nel suo laboratorio si respira l’odore delle essenze che usavano gli antichi maestri – L’università dei liutai e la facoltà di musicologia funzionano bene grazie all’eredità di uno svizzero, industriale di formaggi»:

CREMONA – C’è un momento magico, ogni mattina, nella Saletta dei Matrimoni del palazzo comunale di Cremona: ed è quando un distinto signore, il professor Andrea Mosconi, preleva con delicatezza un violino da una teca di cristallo e attacca a suonare. C’è, nei suoi gesti, qualcosa di sacerdotale, come stesse celebrando un rito.

E rito è, infatti. A Mosconi, conservatore dei Beni liutari, il Comune ha affidato il compito di tener “desti” i cinque violini custoditi nel locale e protetti da un’assicurazione di tre miliardi, che sono la quintessenza dell’arte liutaia cremonese dalla metà del ‘500 alla metà del ‘700. Ma proprio per evitare che la loro anima si affievolisca e si estingua, è necessario pizzicarli e farli vibrare un poco ogni giorno.

Questa mattina, il massaggio cardiaco cui assisto in mezzo a una scolaresca incantata e anche un po’ intimorita – sembra – dal prodigio dell’immortalità degli strumenti è per un Giuseppe Guarneri, detto del Gesù, anno di nascita 1734. Andrea Mosconi tende l’arco e arriccia le dita sulle corde, per una sonata di Bach: e il suono che ne esce è fresco e puro, denso nelle note gravi, mai stridulo nelle acute. Gli esperti sostengono che gli è rimasta intatta la voce dell’infanzia.

Gli altri violini stanno chiusi nelle bacheche di vetro, protetti da un panno, in attesa del loro turno: e così non abbiamo la fortuna di ascoltare un Andrea Amati del 1566, un Niccolò Amati del 1658, un Giuseppe Guarneri (figlio di Andrea) del 1689 e, soprattutto, un Antonio Stradivari del 1715, etichettato col nome del violinista ungherese – Joseph Joachim – che ne entrò in possesso alla fine del secolo scorso.

La liuteria e Cremona sono tutt’uno, anche se qualche scanzonato sostiene che il torrone può vantare lo stesso diritto, sul piano dell’identificazione. Resta però difficile negare che se c’è una città visceralmente legata alla musica, questa è Cremona. E la caratteristica di questo rapporto ombelicale sta nel fatto che gli Amati, i Guarneri e gli Stradivari – artigiani principi – non sono un mito relegato nei tabernacoli della Saletta dei Matrimoni, oppure tenuto in vita dai concertisti che usano i loro prodigiosi strumenti. Al contrario. È una realtà tuttora operante, sfuggita alle computerizzazioni, alle macchine, al lavoro in serie. Un violino, una viola, un cello, un contrabbasso qui nascono ancora dalle mani di un uomo.

Per rendersene conto, basta fare un salto al numero 18 di via Milazzo. C’è la bottega di Francesco Bissolotti, maestro liutaio, e dei suoi tre figli, Maurizio, Vincenzo, Tiziano. Basta affacciarsi alla soglia degli ottanta e più laboratori che producono, con parsimonia, strumenti a corda, rispettando scrupolosamente le regole e i procedimenti stabiliti trecent’anni or sono.

Appena dentro l’atelier del Bissolotti, uno si chiede che differenza possa mai esservi – di cose, d’atmosfera, di odori – da quello occupato dallo Stradivari dal 1680 al 1737 (anno della morte) nella parrocchia di San Matteo: stesso banco d’artigiano con le morse, stessa antica, essenziale attrezzatura con sgorbie, pialle, lime, rasiere, seghe, compassi; stessi profumi di resina, alcool, mastice, zafferano e sangue di drago e, soprattutto, quell’acuto sentore di montagna e di bosco degli aceri dei Balcani e dell’abete rosso della Val di Fiemme.

Cinquantotto anni, agile, la barba tuttora nerissima abbarbicata alle sue forti mascelle di campesino della Bassa, questo signor Bissolotti sembra davvero impersonare il tipo dell’artigiano puro, che ha messo la sua perizia manuale a disposizione di una grande, acuta sensibilità musicale.

“Sono nato a Soresina, qui vicino, il 2 aprile del ‘29. I miei erano contadini, mio padre faceva il mandriano, o il bergamino, come si dice da queste parti. A nove anni ho preso in mano il primo violino; a 17 ne ho costruito uno. Ho fatto la scuola di liuteria, regolare. Mi sono diplomato a pieni voti, dopo quattro anni. Poi ho insegnato nello stesso istituto, per 22 anni.”

Bissolotti ha l’umiltà di riconoscere che deve molto, anzi, moltissimo al grande liutaio e restauratore Simone Fernando Sacconi, trasmigrato a New York negli anni Trenta per lavorare prima alla Casa Hermann e poi alla Casa Wurlitzer, dove approda il meglio degli strumenti del mondo: “Ma ogni anno – racconta – Sacconi tornava a Cremona, per respirare l’aria che era stata di Stradivari. Veniva a trovarmi qui, in bottega. Lui, i violini li apriva, li odorava, li studiava: insomma, ne carpiva l’anima. L’ho visto al lavoro e ho imparato molto. È stato l’anello di congiunzione tra la liuteria del passato e quella odierna.”

Nessuno sembra aver dubbi che, grazie anche alla geniale operazione di Sacconi, tocchi oggi a Bissolotti il diritto di essere considerato – insieme alla sua allieva Wanna Zambelli – l’autentico erede degli Stradivari e dei Guarneri: un titolo di merito che gli è stato conferito, anche ufficialmente, nel ‘73, quando lo fecero presidente dell’Associazione cremonese liutai artigiani professionisti (Aclap).

“Si è certamente stabilito un nuovo rapporto tra costruttori ed esecutori, con reciproco giovamento – mi dice Franco Feroldi, vicepresidente dell’Aclap –, una collaborazione personale e diretta. Ogni strumento nasce su commissione, con requisiti particolari. Dalla bottega di Bissolotti è uscita la viola a cinque corde per Salvatore Accardo; dal laboratorio della Zambelli il violoncello per un altro grande interprete, Rocco Filippini.”

Il duecentocinquantesimo anniversario della morte di Antonio Stradivari, che ricorre proprio quest’anno (il 18 dicembre) non può lasciare indifferenti i cultori e gli appassionati di liuteria: ma non si tratta certo di avvenimenti che possano scatenare frenesie collettive. Si tratta di una festa privata e quasi segreta per quei pochi che dei grandi liutai del Sei-Settecento si son fatti una ragion di vita, un’unica, esclusiva passione.

È il caso di Elia Santoro, un giornalista del luogo che da anni affianca al suo mestiere di cronista questa specializzazione storico-musicale. “È dal ‘53 che batto su questo chiodo – ammette – frugando negli archivi e nelle biblioteche.” Parla di Stradivari come lo avesse conosciuto personalmente: anzi, come avesse lavorato nella sua bottega, tanto sembrano profonde le sue cognizioni tecniche sul legno, la stagionatura, le vernici.

Parla degli undici figli che ha avuto da due mogli (“era un uomo ligio, morale”), dei soli due – Francesco e Omobono – che lo hanno seguito nel mestiere e di un terzo infine – Paolo – (“un bighellone, un vitellone”) che si mise a fare il mercante, trafficando anche indegnamente con la produzione paterna. Ma gli archivi non compensano la sua curiosità e la sua ansia di ricerca e alla fine si trova in mano una smilza biografia dello Stradivari, anche perché “la sua vita non è stata ricca di avvenimenti”. Tra le poche cose certe (…) la data di morte nel 1737.

Ci si chiede ora che taglio possa avere – data la scarsità di elementi biografici – il film Tv che sta per essere girato sul grande liutaio: è legittimo il sospetto che una versione romanzata della sua esistenza finisca col prevalere su un rigoroso impianto documentaristico, nonostante la consulenza storica di Elia Santoro. Né è possibile prevedere quanta credibilità possa conferire al personaggio la presenza, sullo schermo, di Anthony Quinn, interprete di Stradivari, mentre i figli dell’attore impersoneranno i figli del liutaio. Ma – dulcis in fundo – saranno le mani di Bissolotti e della sua prole a manipolare l’acero e l’abete rosso quando la cinepresa dovrà riprendere il mistero gaudioso della nascita dei violini.

La liuteria rimane certo la parte più cospicua della vita musicale cremonese, con la sua scuola – fondata nel ‘38 – che ospita 130 allievi, provenienti da ventotto Paesi diversi, tra cui, per la prima volta, la Cina. Ma vi sono altre attività e istituti, legati anche ai nomi dei due geni locali, Monteverdi e Ponchielli: una scuola civica intestata al primo, un teatro lirico di buona fama, recentemente municipalizzato, dedicato al secondo.

Sul piano dell’insegnamento, Cremona è in grado di vantare una scuola di Paleografia musicale (biennio, con diploma) e una facoltà di musicologia (4 anni di corso, con laurea) frequentata da 450-500 studenti: “In ambedue i casi – mi dice il professor Ugo Gualazzini, giurista di fama ma attentissimo ai fatti musicali della sua città, visto che ‘il diritto e la musica hanno due strutture eguali, fondate sulla logica’ – siamo di fronte a organizzazioni didattiche condotte con estrema serietà: selezione severa, obbligo di frequenza, docenti di prim’ordine.”

E i fondi? Beh, qui si entra un po’ nella favola, una favola che porta il nome di Fondazione Stauffer. È la storia di un uomo di origine svizzera ma nato nel Cremonese (Walter Stauffer, appunto) che accumula una straordinaria fortuna con un’industria casearia: e che, non avendo eredi (muore nel ‘74), lascia il suo patrimonio a Cremona, perché lo gestisca a favore della musica e della liuteria in particolare. Mai nessuno aveva pensato, fino ad allora, che potesse nascere un rapporto così fecondo tra formaggi e violini.

Si deve certo ai contributi della Fondazione (oltre che alla sensibilità dell’Amministrazione comunale, presieduta dal sindaco Renzo Zaffanella, e all’intraprendenza dell’assessore alla cultura, Luigi Magnoli) se Cremona può oggi permettersi dei corsi di perfezionamento affidati a concertisti di fama internazionale come Salvatore Accardo (violino), Giuranna (viola), Filippini (violoncello) e Petracchi (contrabbasso).

“È il nostro fiore all’occhiello – dice Paolo Salvelli, che della Fondazione è vicepresidente –. I corsi durano 8 mesi, da novembre a giugno. Diciotto ore di lezione al mese. Completamente gratuiti. Sono tutti ragazzi già diplomati, ma le audizioni sono severissime. Ne abbiamo da tutte le parti d’Italia, mentre la presenza straniera è limitata.”

È però legittimo chiedersi, mentre Accardo e compagni stanno forgiando la futura aristocrazia del concertismo, se la gioventù di Cremona non si senta perduta, per mancanza d’ossigeno, nell’ossessionante clima del classico. Nessuno ha ancora scritto sui muri, ʍ Stradivari o a morte Beethoven, ma potrebbe capitare.

“Oh no – dice il sindaco tranquillo –, ci sono tanti progetti per i giovani. Abbiamo creato spazi per i rockettari, soltanto l’altro giorno è stato inaugurato il Cascinetto, un locale tutto loro, dove si potranno sfogare. Ci sono complessi pop, jazz band, cori polifonici di studenti.

Suona bene, insomma, questa Cremona di fine maggio, dove Monteverdi e Bach possono impunemente coabitare con i Beatles, i Duran Duran e Vasco Rossi. E se aspetti il mercoledì, giorno del mercato del bestiame, la città presenta quel suo altro volto, non meno autentico, di antico borgo rurale agricolo, la Cremona dei «turun turazz tetazz», bella turgida gagliarda e godereccia, al settimo posto in Italia per reddito pro capite.

E ti viene da pensare, senza spavento, che nelle vene di questi grossi sensali e allevatori di suini scorre lo stesso sangue che nelle vene dei maestri liutai, come il Bissolotti di Soresina: e che in fondo grugniti e sospiri di violino non sono in disaccordo tra di loro, perché musica della stessa terra.

[Didascalia della foto che accompagna il servizio: «Il maestro liutaio Francesco Bissolotti al lavoro nella sua bottega a Cremona»]
Ettore Mo, «Nella fabbrica di Stradivari», Cremona 24 maggio 1987 © Corriere della Sera