Donne che lavorano con il cuore

«L'albero dei violini»
Wanna Zambelli, maestra liutaia a Cremona

di Laura Pazzaglia


Il libro

Il libro è il resoconto di un viaggio lungo un anno nelle botteghe e nei laboratori di alcune donne che hanno scelto di fare le artigiane, oggi, in Italia.
L'autrice è partita per un lungo viaggio attraverso le città d'arte, i capoluoghi, le province, le periferie e le isole più lontane del nostro paese, alla ricerca di mani sporche da raccontare, di stanze polverose di segatura, odorose di colla e di vernici, di luci accese a notte fonda su banchi da lavoro e su telai. Un viaggio in ascolto delle donne, con tutto il loro talento per la materia, con tutta la loro "sapienza delle mani".
Questa non è una guida all'artigianato, e neppure una ricerca sul folklore. Le cose create diventano qui soprattutto un modo per raccontarsi, un ponte gettato tra persone: chi racconta, e chi ascolta, attraverso le cose crea legami, si interessa.
Conoscerete così la storia di Chiara, che tesse la sostanza prodotta da un mollusco che vive in mare, o quella di Silvia, che stampa la tela usando la ruggine dei chiodi. Ascolterete storie di passione, passione per un mestiere, storie di amori tardivi e di innamoramenti fulminei.
I fili della trama e dell'ordito si sono incrociati e questo è il tessuto: uno strano zig-zag, fatto di passaparola, di amicizie lontane, di segnalazioni reciproche, di improvvise rivelazioni. Per questo non troverete i loro recapiti ed indirizzi all'interno del libro: se accadrà, sarete voi ad incontrare loro, e allora certo, vi riconoscerete.


Laura Pazzaglia

Attrice, autrice, progettista culturale


Nata a Milano nel 1970, nei primi anni ’90 si è laureata in recitazione e drammaturgia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica S. D’Amico di Roma. Dal 1994 è ricercatrice creativa e corporea con Maria A. Listur, Roma/Parigi. Alterna teatro classico, narrazione e ricerca. Nel 2017 fonda con Maria A. Listur il gruppo d’arte MA-LÀ pro che produce progetti culturali multidisciplinari in spazi istituzionali, pubblici, privati, virtuali e non: performance, narrazioni, teatro, video art, eventi. È animatrice di dibattiti e incontri. Ha scritto “Donne che lavorano con il cuore” (Aliberti, 2004).


L'intervista



Così descrive l’incontro con Wanna Zambelli alla Scuola di Liuteria di Cremona la scrittrice Laura Pazzaglia nel libro «Donne che lavorano con il cuore» al capitolo «L’albero dei violini» (Reggio Emilia, Aliberti editore, 2004, pagg. 63-65):


Ore otto e trenta: lezione di laboratorio alla «Scuola Internazionale di Liuteria, A. Stradivari», a Cremona. Scortata dalla bidella, salgo affannosamente i quattro piani di scale del cinquecentesco palazzo della scuola, fino al sottotetto dove si trova l’aula-laboratorio del «maestro» Zambelli.

La porta è aperta; una mingherlina ragazza cinese è sul ballatoio a sgranchirsi le gambe. Entro e vengo travolta da una ouverture di Bach che esce a volume altissimo da un radiolone poggiato su un tavolo; nella lama di sole che entra da due finestre affacciate sui tetti di Cremona, nuota una polvere lieve, prodotta dalla lavorazione del legno. Siamo in una soffitta, con le travi a vista e una colonna portante al centro.

Su ogni lato sono disposti i banchi da lavoro, alti tavoli di legno massello, ciascuna postazione ha una lampada da tavolo agganciata, uno sgabello e una vetrinetta a muro in cui sono raccolti e schedati gli strumenti di lavoro; sono tantissimi e hanno nomi antichi e misteriosi: bedano per filetti, calibro a corsoio, lima ovale dolce, lima piatta bastarda, lima raspetta semitonda, pialletta Kunz, rasiera, scalpelli, seghetto, sgorbie, squadra e righello. Solo gli ultimi due nomi significano qualcosa per me. In un angolo dell’aula c’è un ampio lavandino dove si vanno ad affilare gli strumenti: si usa l’acqua e una pietra grigia naturale.

Wanna mi stringe frettolosamente la mano: ha quattordici allievi e poche ore di lezione, quindi parleremo più tardi, da sole. È una robusta signora in jeans e maglione, con una zazzera corta di capelli castani, un viso liscio e rubicondo, in cui brilluccicano due occhietti azzurri azzurri. È di poche parole.

Mi aggiro tra i banchi. Ogni allievo è intento a una fase diversa della lavorazione: c’è chi sta levigando con una piccola pialla la bombatura di un fondo di legno che ha già tutta la forma di un violino, chi sta disegnando le caratteristiche «ff» (effe) sulla superficie del piano armonico: ne controlla l’inclinazione e la posizione perché poi dovrà tagliarle; c’è chi invece, una tavola di legno in mano, cerca con lo sguardo la maestra per iniziare il taglio della forma.

Gli allievi sono un coreano sorridentissimo, la cinese che era fuori sul ballatoio, un giapponese coi capelli drizzati dal gel e vestito come un manga, il fumetto giapponese per adolescenti. Parlo con l’unico italiano della classe: un ragazzo di Lucca che faceva il restauratore di legno e di affreschi, ha dovuto mollare perché soffriva di vertigini e allora ha deciso di fare violini.

C’è poi una trentenne di Barcellona, insegnante elementare e violinista, dà concerti con un violino fatto da lei, è venuta a specializzarsi in Italia, parla con venerazione della maestra Zambelli. Il più giovane è un ragazzo bulgaro di sedici anni, nel banco di fianco al suo sta lavorando sua sorella, sono figli di un liutaio che a sua volta si è diplomato qui nel 1985; e poi ancora, un ragazzo francese che viene dai monti della Savoia, figlio di un falegname, anche lui sa lavorare il legno per fare i mobili, però a tre anni ha visto un violino in televisione e ha detto indicandolo: io voglio fare quello; e infine una donna di Liverpool che suona musica celtica, ha gli occhi lucidi, sta parlando fitto fitto con Wanna, cerca di rimediare a un solco precipitoso che ha fatto sul piano armonico del violino. Di Wanna mi colpiscono l’attenzione e l’amore con cui parla e segue contemporaneamente tre allievi; a una ragazza propone di interrompere il lavoro e andare a fumarsi una sigaretta; a un altro prende di mano una pialla lunga non più di un centimetro, la passa delicatamente sul legno per molti minuti, producendo una cascata di riccioli di segatura fine, mentre a un’altra ancora spiega tre volte che non ha affilato a sufficienza la rasiera, lo fa scandendo bene poche, semplici parole in italiano: tutti lo parlano ma un po’ fantasiosamente.

Quando la lezione finisce, gli allievi svaniscono giù per le scale in una girandola di saluti, custodie di strumenti, zaini; con loro svanisce anche la musica di Bach.

********


Il miglior ritratto di Wanna Zambelli lo fa lei stessa, sempre nell’intervista rilasciata a Laura Pazzaglia nel 2004 per il volume sopra citato (ivi, p. 67-74, estratto):

Io non suono, sono arrivata alla liuteria per altre strade; d’altronde nella mia generazione, in Italia, in quanti potevano suonare? Anche se avessi voluto, non avrei potuto trovare chi mi insegnasse, e neppure comprare uno strumento. Avevo imparato a suonare un po’ alla Scuola di Liuteria, dove è obbligatorio studiare musica, però poi ho dovuto decidermi: non si può suonare e lavorare. Io sono originaria di un piccolo paese, al confine con le province di Mantova e di Brescia, si chiama Volongo; per venire a scuola a Cremona, partivo da casa alle sette il mattino e tornavo la sera alle otto.

Io sono del ‘53. Ma vedendo il film «L’albero degli zoccoli», che è ambientato in queste zone, le cose non erano tanto cambiate. Mi ricordo che mia mamma stirava ancora col ferro scaldato a fuoco, mi ricordo quando abbiamo preso il primo frigorifero, per non parlare della televisione! Abitavamo allora tutti insieme coi nonni. Il nonno aveva poca terra e altra a mezzadria e pochi animali. E così, con il poco lavoro che c’era, mio padre andava con le macchine agricole a fare la trebbiatura, a tagliar l’erba, a fare le balle di fieno dagli altri contadini, era artigiano insomma. Mia mamma è sempre stata in casa, ma faceva la sarta e lo ha fatto tutta la vita.

Le ragazze allora quando finivano le scuole andavano a lavorare in fabbrica; finite le medie io invece non avevo nessuna voglia di finire in fabbrica: non era pensabile stare al chiuso tutte quelle ore. E allora rimaneva la possibilità di continuare a studiare. I licei li ho esclusi perché non era nella mia mentalità saper organizzare lo studio. A me piaceva chimica, e così sono stata iscritta un anno all’istituto tecnico. Ho capito però che dovevo puntare su un lavoro dove vedi le cose che fai; fare una cosa che non vedi, come matematica o fisica, era troppo difficile; maestra o segretaria d’azienda, non ne parliamo nemmeno: insomma, sapevo cosa non volevo.

Finché un professore, che insegnava pittura alla Scuola d’Arte del paese, disse a mia mamma: «Perché non la iscrivete alla Scuola di Liuteria?» Fin dai primi giorni mi sono trovata benissimo. Mentre all’ITIS eravamo molti per ogni classe, alla Scuola di Liuteria eravamo sei allievi in tutto, di anni diversi: eravamo come una famiglia. E così non ho più avuto nessuna difficoltà. Mi piaceva mettermi lì e capire come dovevo fare.

Ancora prima di finire la scuola, uno dei miei insegnanti, il maestro Bissolotti, mi ha chiesto di andare a lavorare nella sua bottega. Nel frattempo, la Scuola si era molto ingrandita, così nel 1972 mi sono diplomata e nel ‘74 sono entrata come insegnante. Fino al ‘93 ho mantenuto anche il mio laboratorio, poi ho chiuso perché le spese erano troppo alte. Tra gli insegnanti della scuola sono sempre stata l’unica donna.

La Scuola di Liuteria esiste dal 1938. La prima donna allieva è stata una ragazza svizzera negli anni Sessanta, poi una ragazza francese che faceva il quarto anno quando io sono entrata, poi per molti anni non ce n’è stata quasi più nessuna. Adesso qui a Cremona ci sono diverse liutaie che hanno aperto laboratori, però poi tutte tengono famiglia e quindi ...

Io non sono sposata, però convivo da trent’anni. Sono sempre stata contro il matrimonio, e se dovessi tornare indietro, forse non convivrei neanche. Non ho figli, mi sono data alla liuteria: già è difficile fare qualcosa e cercare di farla bene. E poi una deve sentirsi cosa deve fare: io non ho mai avuto più di tanto il senso materno o forse, se l’ho avuto, lo esprimo ogni giorno quando vado a scuola. Insomma, complicarsi le cose, non mi sembrava il caso.

Il mio primo maestro, Pietro Sgarabotto, che era un maestro all’antica maniera, col fiocco sul grembiule da lavoro e i capelli lunghi da artista, diceva che, guardando lo strumento, si vede la persona che l’ha fatto. In effetti è così: se è fatto come va fatto, cioè uno alla volta, secondo me, ci si mette dentro un po’ di ciò che si è in quel momento. Con gli anni si capisce che non è tanto importante fare i violini proprio perfetti, ma è importante dargli un po’ più di personalità. O forse è naturale che sia così: all’inizio si cerca di imitare, poi man mano si lascia perdere, non so se è l’età, non so se è perché non riesco più a farli tanto bene!

Per costruire un violino, certe misure sono fisse, altre no; la misura della lunghezza del manico per esempio è fissa, perché sul manico di un violino non ci sono i tasti come sulla chitarra, la nota è determinata dalla posizione della mano, quindi la lunghezza del manico deve essere sempre la stessa; anche il peso deve stare entro un certo limite. La forma invece varia sempre. Di solito i musicisti scelgono la forma che desiderano, sulla base dei modelli di violino già esistenti. Per esempio, uno può volere un violino tipo Amati. Ma bisogna distinguere tra modello e copia di un violino storico: se lei mi chiede una copia del «Cannone» del Guarneri, legno, colore e forma devono essere identici. (N.d.r: il «Cannone» è il nome di un violino storico suonato da Niccolò Paganini, famoso per la potenza del suono, da cui il nome).

A me piace soprattutto iniziare un violino e scolpirne la testa. Mi piace tutta la fase iniziale, fino a chiuderlo, dopo si tratta di rifinire, di fare cose di precisione. Il carattere dello strumento si vede nelle bombature, nelle “ff”, come sono fatte, e nella testa soprattutto: è un lavoro che potrebbe fare qualsiasi intagliatore, la difficoltà è fare i due «profili» uguali e simmetrici. A me non riesce ancora. La forma della testa, il riccio, può variare leggermente dai canoni fissati in età barocca, ma sono variazioni che posso notare io, per lei sarebbero tutte uguali.

Le effe, le due caratteristiche aperture sulla cassa armonica, favoriscono la fuoriuscita del suono, ma bisognerebbe parlarne in termini di fisica acustica. Ci sono comunque diversi modelli di “ff” a seconda dell’autore di riferimento. L’ultima cosa che si mette, quando il violino è finito, è l’anima. L’anima è un cilindretto di legno d’acero che si colloca all’interno della cassa del violino, tra il fondo e il coperchio (la tavola), nel punto dove fa forza il ponticello su cui passano le corde; più o meno è lì, poi varia da strumento a strumento. Si infila dentro con un ferro, una specie d’uncino e deve essere incastrato leggermente nella posizione giusta: per farlo si guarda dentro il violino attraverso un foro sul fondo, sul quale poi si applicherà il bottone, da cui partiranno la cordiera e le corde. L’anima serve a trasmettere le vibrazioni dal fondo alla tavola e mette in comunicazione queste due parti.

In tutta la mia vita, io non ho fatto molti strumenti, non più di tre o quattro l’anno. E non ho quasi mai venduto a commercianti, ma sempre a musicisti che magari si erano passati la voce, perché qualcuno di loro aveva già un mio strumento. I primi li ho venduti in America. Spesso venivano apposta qui a Cremona degli orchestrali in tournée in Italia, ne compravano un certo numero e poi li rivendevano ai colleghi negli Stati Uniti.

Quasi certamente il mio miglior violoncello l’ho fatto nel 1984 per il maestro Filippini; aveva visto un mio strumento, gli era piaciuto, allora è venuto, abbiamo scelto il legno insieme e lui ha seguito tutte le fasi di lavoro. C’è voluto parecchio tempo per costruirlo, però è venuto bene e lui è rimasto molto soddisfatto. Certo, lui ha uno Stradivari (il Gore Booth del 1710) (...). 

La domanda di strumenti musicali ovviamente non è molta, e le ragioni sono diverse. Innanzitutto, c’è un pregiudizio diffuso tra gli insegnanti di Conservatorio secondo cui uno strumento vecchio suona meglio di uno nuovo; ovviamente non è vero: dipende dalla qualità, da come è stato fatto. Quindi consigliano sempre di acquistarne uno vecchio. Guardi in un’orchestra italiana quanti strumenti ad arco nuovi ci sono: pochissimi. E poi qui in Italia abbiamo l’idea che se uno suona, deve sicuramente farlo per professione, in orchestra; in Germania, per esempio, si suona anche in famiglia, ognuno il suo strumento. Non credo sia solo una questione di soldi, forse è anche una questione di educazione. (...)

E poi pensi che chi suona non possiede più di un violino alla volta: pochi affermatissimi concertisti possono avere tre, quattro strumenti; chi suona per piacere ne prende uno in una vita. Insomma, la domanda non è molta. E così un violino fatto da un maestro deve costare venti, trenta milioni di lire; quindi, se qualcuno qui a Cremona li vende a due milioni, c’è qualcosa che non va ... (...)

Secondo me artigiani si nasce, nessuno mi ha spinto! Certe volte ci penso al perché faccio questo mestiere, e non riesco a capirlo. Non mi sarebbe piaciuto prendere ordini da qualcuno, questo sì. Però non si spiega solo così la mia scelta. Forse c’è qualcosa che ti spinge a fare qualcosa per te stessa.

Alla Scuola la cosa più difficile da far capire è che uno deve provare piacere nel fare lo strumento: se lo fa solo perché alla fine lo vende, o ne fa cinque di fila perché in quel momento ha bisogno di soldi, non va bene. (…)

Ci vuole predisposizione per la liuteria, io il talento non lo posso insegnare. Pochissimi hanno l’istinto e la velocità di capire come si deve fare, ma gli altri che non sono così non significa che non diventeranno buoni artigiani. Vedo ragazze che cominciano, poi se nessuno le stimola lasciano perdere, fanno la mamma, fanno altro. Questo mestiere bisogna proprio volerlo. Anch’io, adesso che devo seguire i miei genitori anziani, non ho il tempo che vorrei per rimettermi a costruire. (…)

Io, e pochi altri colleghi, siamo un po’ dei dinosauri della liuteria, siamo ancora di quelli a cui piace mettersi lì, al banco da lavoro. Andare in vacanza, avere la bella casa, cambiar la macchina ogni due anni, per noi che la prendiamo un po’ filosoficamente queste cose non ci sono tanto.