Ho incontrato il Maestro Sacconi per la prima volta quando venne a Cremona nel 1971. Frequentavo il secondo anno di scuola [la Scuola di Liuteria di Cremona, n.d.t.] e lo incontrai nella bottega del mio maestro, Francesco Bissolotti, con il quale egli stava lavorando al suo libro. Rimasi totalmente impressionato dal suo talento, dalla sua sapienza e dalla sua umanità, e ci fu un'intesa spontanea tra noi. Era un uomo che rappresentava molto più della sola liuteria, ed il suo carattere così umano fu molto importante per me.
L'anno seguente, Sacconi venne di nuovo a Cremona per terminare il lavoro sul suo libro e questa volta vi rimase per diversi mesi, perché sua moglie era in ospedale. Riuscii a vederlo abbastanza spesso, poiché passava parecchio tempo nella bottega di Bissolotti per fare con lui un violino e per aiutare me a costruire un violoncello. Quando stavamo insieme, parlavamo anche del sistema di verniciatura. In questo periodo ebbi l'opportunità di conoscerlo molto bene, sia professionalmente che personalmente.
Sacconi era un grande esperto di riparazione e restauro e a quell'epoca i liutai italiani si occupavano quasi esclusivamente della costruzione di nuovi strumenti. Tutti ammiravano Sacconi per la sua sapienza e gli riconoscevano di non essere secondo a nessuno. Inoltre, non esitava mai a mostrare, spiegare o insegnare tutto ciò che sapeva. Gli veniva naturale, e ciò che non riusciva a spiegare a parole semplicemente lo mostrava. Aveva delle mani straordinarie! Poteva prendere una matita o un pezzo di gesso, disegnare su un pezzo di legno o di carta e farti capire visivamente come fare le cose. Mentre mi stava aiutando a costruire il violoncello, riuscivo a capire con facilità le sue spiegazioni così semplici sul come trattare le bombature, le «ff», la filettatura... e tutto il resto.
Oltre alla sua enorme sapienza e alla sua grandissima generosità, egli era vivace ed allegro. Stava costantemente in piedi nella bottega di Bissolotti, giorno e notte, facendoci stancare a morte mentre lui rimaneva fresco come un «buon giorno!»
Quell'estate stavo per terminare la scuola ed ero indeciso se tornare in Israele o andare in America. Sacconi mi consigliò di andare a New York, perché riteneva che il liutaio moderno dovesse studiare riparazione e restauro. Secondo lui, si doveva sapere molto sugli strumenti antichi per riuscire a capire completamente l'acustica e le esigenze di quelli moderni. All'epoca, il posto migliore per imparare tutto questo era New York e naturalmente volevo andare alla bottega di Wurlitzer, dove sarei potuto stare con lui.
La Signora Wurlitzer mi invitò ad andare a lavorare nella sua bottega, ed arrivai il 26 febbraio 1973. Fu uno shock culturale arrivare da solo in una città enorme come New York provenendo da un centro piccolo come Cremona o da un posto come Israele, il mio Paese d'origine. Inoltre, quando entrai nella bottega, non sapevo nulla su come riparare o mettere a punto uno strumento. Nei miei tre anni a Cremona avevo visto soltanto strumenti nuovi.
Oltre a tutto ciò, da Wurlitzer c'era una tremenda tensione per la quale io non ero affatto preparato. Da ciò che avevo sentito da persone che lavoravano lì già da qualche anno prima del mio arrivo, l'atmosfera e i rapporti personali erano magnifici. La gente che veniva ammirava quella bottega ed apprezzava quelli che vi lavoravano. Quando arrivai io, invece, c'erano conflitti infiniti tra la direzione e i dipendenti, fra i dipendenti stessi, nonché fra i musicisti e la direzione. Tutto ciò mi creò delle difficoltà.
La cosa peggiore, però, fu di trovare Sacconi completamente diverso da come era soltanto sei mesi prima a Cremona. Quando lo vidi per la prima volta in bottega (da Wurlitzer), mi sconvolse vederlo sottomesso, chiuso in se stesso; un uomo con la schiena piegata e i sentimenti «piegati». Si muoveva persino con grande insicurezza, o forse con paura. Non osava aprir bocca, nemmeno per dire: "Ciao!" a me, e sono sicuro che mi volesse molto bene. Non doveva insegnare e nemmeno mostrare qualcosa agli altri liutai, perché ormai qualcun altro dirigeva. Quando veniva alla bottega doveva soltanto guardare quei pochi strumenti che erano da identificare e incontrare i clienti che chiedevano espressamente di lui.
Dopo la prima settimana, gli chiesi perché non m'avesse detto che la situazione da Wurlitzer era completamente diversa da quella che m'avevano descritta Charles Beare e altri che avevano lavorato lì in passato. Mi rispose: "Lascia perdere! Volevo che tu venissi qui, anche con questo tipo di situazione, perché puoi ugualmente imparare e studiare, ed era questo ciò che volevo per te."
Tristemente, veniva alla bottega soltanto quando lo chiamavano, di solito al sabato, a volte al venerdì. Usavano come scusa la sua pressione alta o la condizione dei suoi occhi per impedirgli di fare di più, e questo era assolutamente ingiusto. I suoi occhi, infatti, erano acuti come quelli di un'aquila e la sua pressione era alta da quando aveva quarant'anni; per di più era ben controllata con pillole e con il suo ottimo atteggiamento. Si pensi che era capace di viaggiare due ore per arrivare al lavoro, di stare in piedi nella bottega per otto ore e poi di viaggiare altre due ore per tornare a casa, e il tutto nella fretta stressante di New York. Bisogna essere proprio forti per fare tutto ciò.
La spiegazione vera di tutto questo, e la vera tragedia, era che verso la fine della sua vita egli veniva respinto dalla propria gente. Non apprezzavano più ciò che faceva ed erano troppo superbi o invidiosi per ammettere che lui fosse ancora più grande che mai. Io credo che questo tipo di situazione abbia molto contribuito alla sua morte e successivamente alla decisione di chiudere la grande Casa Wurlitzer.
Ricordo l'ultima riparazione che fece a casa, un Bergonzi. Lo strumento era quasi «nudo» [di vernice, n.d.t.] prima che lui lo ritoccasse, ed aggiunse una vernice talmente perfetta che non era possibile distinguerla dall'originale. Un lavoro come quello avrebbe dovuto essere apprezzato nella bottega, ed io ho imparato in quell'occasione a non trascurare né sottovalutare mai le persone anziane, soprattutto quelle come Sacconi, che è stato creativo fino all'ultimo respiro. Chiunque lo sottovalutava non sapeva di che cosa stesse parlando! Poco prima di morire, costruì due bellissimi strumenti. Uno era una viola fatta su modello Stradivari. Essa mostra il magnifico lavoro che era ancora capace di compiere a settantasette anni ed è la prova tangibile che la sua abilità non aveva subito alcun deterioramento con l'età. L'altro strumento era la copia del violino «Lord Wilton» fatto da Guarneri del Gesù nel 1742. Riuscì a finire la costruzione di questo strumento, ma non a verniciarlo e ritoccarlo.
Quando faceva una copia, doveva essere esatta, il che voleva dire che perfino le minuscole crepe nell'interno dell'originale dovevano essere riprodotte! Se dentro c'era una scalfittura da sgorbia, lui la riproduceva nella copia; se il filetto era un po' rotto in alcuni punti – e Guarneri è noto per questo! – lui riproduceva identicamente le rotture.
Sacconi, prima di morire, aveva cominciato a verniciare e a ritoccare questa copia del Guarneri. Il suo metodo era prima di verniciarlo come se fosse nuovo, così come l'originale era stato verniciato. Poi cominciava a togliere la vernice dovunque fosse consumata nell'originale. Quindi faceva i graffi e le crepe. Sfortunatamente, non è riuscito a terminare il lavoro.
Sacconi fece ancora altri strumenti che non erano copie, bensì strumenti fatti su modelli di Stradivari. Sacconi era modesto; diceva di non essere un grande uomo, ma soltanto uno che cercava di capire ciò che un grande uomo – Antonio Stradivari – aveva fatto! Egli non era soltanto modesto, come ho detto; era anche umano e buono. Per fare un esempio, ogni volta che andavo a Long Island col treno a fargli visita, il fine settimana, lui si faceva tutta la strada dal suo piccolo villaggio per venirmi a prendere alla stazione. Ho permesso che questo grande maestro facesse l'autista per un giovanotto perché lui mi aveva detto che non c'era alcun mezzo pubblico che andava al villaggio. Fu soltanto dopo la sua morte, quando ero preoccupato di non poter più andare a trovare la Signora Sacconi, che un vicino di casa mi disse che c'era sempre stato un autobus pubblico o un servizio di taxi. Lui non mi aveva detto niente per risparmiarmi il disturbo di aspettarli.
Durante quei quattro mesi in cui Sacconi era ancora vivo, gli unici momenti in cui mi sentivo a mio agio era quando andavo il fine settimana a trascorrere la giornata con lui e sua moglie. Questa era l'unica cosa che mi facesse sentire di avere una ragione per rimanere in questa città e, quando lui morì, fu quasi la fine del mondo per me. Fu molto più difficile vivere nel terribile mondo di New York senza alcun sostegno morale.
Il mio rapporto con Sacconi non è, però, finito con la sua morte. Continuo ad avere un rapporto indiretto con lui attraverso sua moglie Teresita, che io adoro perché è una grande persona. Oggi ha ottantacinque anni, vive e si mantiene ancora da sola ed è sempre ottimista e di buon umore. Nonostante qualche disturbo, probabilmente gli stessi di anni fa, continua a sbrigare le faccende di casa, a cucire e a scrivere.
Lei e suo marito avevano un rapporto meraviglioso. Vedevo durante le mie visite che esisteva una vera intesa fra loro. Ella accettava la vita di lui senza esitazioni, i suoi desideri non avevano importanza; era contenta di far in modo che suo marito fosse felice e questo ha mantenuto sempre bello il loro rapporto.
Se visitaste la loro casa, vedreste che il più grande maestro, quello che avrebbe certo potuto sfruttare economicamente tutte le sue capacità e la sua grande sapienza, in effetti non l'ha mai fatto. La casa è piccola e l'arredamento è modesto, ma è accogliente e caldo. Sono sicuro che molti dei suoi allievi e gran parte delle persone che lui ha aiutato hanno avuto più vantaggi economici di quanti ne abbia avuti lui, ma a lui non importavano quelle cose. Non era un uomo invidioso!
Sacconi era d'importanza talmente vitale per Wurlitzer che quando lo misero in ombra, sia i clienti che i buoni liutai – i migliori al mondo! – hanno cominciato a lasciare la bottega. Dopo la sua morte nel 1973, quelli che erano rimasti per studiare con lui si sono volatilizzati appena possibile, sia per mettersi in proprio, sia per lavorare per un'altra compagnia.
Fortunatamente Sacconi aveva terminato il suo libro, nel quale sono state raccolte la sua esperienza e conoscenza dell'opera di Stradivari. Questo libro è un'ottima guida per me e per molti liutai di tutto il mondo. A tante conferenze dove si parla di costruzione e di verniciatura di violini, si sente spesso il nome di Sacconi.
New York, 3 marzo 1984
Tratto dal libro: «Dalla liuteria alla musica: l’opera di Simone Fernando Sacconi», presentato ufficialmente il 17 dicembre 1985 alla Library of Congress di Washington, D.C.
(Cremona, ACLAP, prima edizione 1985, seconda edizione 1986, pagg. 163-167 - Italian / English).