Vivo
ancora a Point Lookout, sulle rive dell’Atlantico, ad una settantina di
chilometri da New York, nella stessa casa in cui Fernando ha passato con me
tanti anni della sua vita. Non mi è mai piaciuto vivere qui, preferivo New
York, dove siamo stati all’inizio, appena arrivati in America dall’Italia. Ma
lui era felice qui, aveva il suo laboratorio – c’è ancora, intatto – la barca
per andare a pescare; e non gli pesava il doversi recare ogni mattina alle 7 a New
York per tornare non prima delle 7,30 di sera. Lui ha avuto tutte le sue
soddisfazioni qui, e questo mi bastava.
Certo, la nostra vita all’inizio è stata abbastanza dura; venendo dall’Italia
pensavamo che le cose sarebbero state più facili. Ma il nostro volerci bene ed
il suo grande amore per il lavoro, la sua grande passione per i violini ci
hanno fatto superare tante difficoltà.
Siamo arrivati in America nel ‘31, dopo alcuni anni passati a Roma (ci siamo
sposati nel ‘25; nostro figlio, Gaspare, è nato nel ‘26). A Roma, Fernando
aveva aperto un suo laboratorio ed è lì che Emil Herrmann lo ha conosciuto;
apprezzando il suo lavoro, lo ha chiamato a Berlino e successivamente gli ha
chiesto di venire in America. "Teresita, mi dispiace lasciare la patria e tutto" – mi ripeteva Fernando – "ma, sai, Herrmann mi dà tanto. In pochi anni facciamo
una piccola fortuna e ritorniamo." Avrebbe voluto ritornare, ma non a Roma, a
Cremona, nella città di Stradivari; poi a New York si è trovato meglio di quel
che pensava, anche perché da Herrmann poteva vedere tutti gli strumenti antichi.
Dovevamo partire dall’Italia nel dicembre del ‘30; abbiamo venduto il
laboratorio e siamo andati a Napoli per imbarcarci, ma al Consolato ci hanno
detto: "Ci dispiace Sacconi, ma c’è troppa disoccupazione in America e Lei non
può andare, non Le diamo il visto." E lui: "Ma io sono chiamato." E loro: "Ci dispiace." Allora siamo dovuti ritornare a Roma ospiti di mia madre. Il maestro Bernardino
Molinari [cognato di Teresita, N.d.T.] era qui in America che ci aspettava.
Allora abbiamo fatto un telegramma, dicendo che non ci avevano dato il visto.
Molinari andò all’Ambasciata a Washington – aveva tante conoscenze, poiché
veniva due volte all’anno in America a dirigere – e disse: "È impossibile
negargli il visto, perché è un artista che qui non abbiamo e deve assolutamente
venire." Insomma, dal dicembre siamo arrivati al 21 aprile; stare in Italia
ospiti di mia madre ad aspettare il visto non è stato facile e si può
immaginare: lui non aveva laboratorio, non aveva niente, non sapeva come fare
per lavorare. Finalmente ci hanno dato il visto. Ma prima, al Consolato, mentre
scendevamo le scale, ci dissero: "Sacconi, il Console La vuole vedere." Dico
io: "Oddio, adesso ci tolgono il visto un’altra volta". Il Console ci riceve e
dice: "Lei è il maestro Sacconi? Devo farLe le mie congratulazioni, perché sono
sette anni che non diamo un visto, e Lei è atteso in America" e gli dà la mano.
E così siamo arrivati a New York, con il piroscafo, portando con noi anche tutto
il legno per i violini e gli utensili per il suo lavoro. L’appartamento dell’Hotel
Midtown dove ci siamo fermati momentaneamente non era molto grande, e così nel
salone, dietro al sofà, Fernando aveva ammucchiato tutto il legno. Dopo qualche
mese, abbiamo trovato un appartamento in affitto di cinque camere, dove lui
aveva il suo laboratorio, nel quale io non potevo toccare niente. Gli dicevo: "Ma
Fernando, perché non tieni un po’ in ordine..." E lui: "Non mi toccare
niente, che nel mio disordine trovo tutto." Tante volte però, mentre cucinavo,
mi chiamava ad aiutarlo e io gli stringevo i piroli, gli facevo un po’ da
assistente. E poi, per i colori delle vernici mi chiedeva: "Ti sembra questo un
po’ più rosso?" Insomma, lo aiutavo come potevo.
Ha iniziato a lavorare da Herrmann, ma Herrmann in quel periodo non c’era, c’era
Oden, la segretaria e Max Moller; poi è arrivato Herrmann. La Casa Herrmann era
allora una delle più grandi Case di liutai, molto importante non solo negli
Stati Uniti. Fernando ha lavorato lì sino al 1951, quando Herrmann decise di
chiudere. Un mese prima disse: "Sacconi, io chiudo, vai con Wurlitzer" (loro due
si erano già messi d’accordo). Se l’avessimo saputo per tempo, io magari avrei
potuto spingere Fernando a mettersi da solo, ad aprire un proprio laboratorio:
lui però non era il tipo, perché gli piaceva moltissimo lavorare ma non voleva
altre responsabilità, altri problemi. Era un grande artista, ma un pessimo
affarista, era troppo generoso, non sapeva dire di no. E poi per lui i soldi
non erano la cosa più importante. Una volta, aveva in mano uno Stradivari e una
persona gli ha chiesto: "Dio, uno Stradivari! Sacconi, tu cosa vorresti, lo
Stradivari o un milione di dollari?" E lui: "Lo Stradivari." Lui era pazzo per
Stradivari.
E così è andato da Wurlitzer. Wurlitzer era un tesoro. E con Wurlitzer le cose
per noi sono migliorate anche economicamente: dava il salario, ma anche la
percentuale.
Nel 1942 abbiamo preso in affitto una casa qui a Point Lookout, non questa dove
vivo ora (questa è stata costruita nel 1946) ma quella a fianco. L’abbiamo
presa in affitto per due anni e poi siamo riusciti a comprarla. Venivamo qui
soltanto negli week-end. Poi, nel 1954, ci siamo trasferiti definitivamente
qui; paga l’affitto a New York, le tasse e l’affitto qui, due telefoni, e quell’andare
avanti e indietro ogni week-end... insomma, ci eravamo stufati. Lui dormiva su,
io giù, perché andava a letto e leggeva; leggeva fino a tardi e poi si alzava
tutte le mattine alle 5 per andare a New York. Lasciava la casa alle 7 con
la macchina per andare a prendere il treno; impiegava due ore per andare e due
per tornare. Si alzava alle 5 perché la prima cosa che faceva era di venire giù,
farsi il caffè e andare in laboratorio; e stava lì, guardava, studiava. Poi alle
6,30 una doccia e partiva. Era felice così.
Dopo la morte di Rembert Wurlitzer le cose piano piano cambiarono. Dario D’Attili
ad un certo punto era diventato il manager del negozio e a Fernando
cominciarono a dire che, a causa della sua pressione alta, era meglio che non
venisse più tutti i giorni. E così andava soltanto tre volte alla settimana.
Poi, nell’ultimo periodo, andava solo quando veniva chiamato. Prendeva il
lavoro e lo faceva qui a casa. Ma al negozio i clienti lo volevano vedere, volevano
Sacconi ... Lui ha sofferto molto per questa situazione, ma non condannava
nessuno; diceva: "Così è la vita." Adesso non soffre più, grazie a Dio. E me
lo sento così vicino. Tante volte metto via una cosa e poi non la trovo. Cerco,
cerco, dove sarà? e mi dico: "Fernando mio, aiutami a cercarla." Faccio così e
la trovo. Abbiamo un rapporto così intenso che, anche se lui è scomparso, è come
se ci fosse ancora. Mi voleva molto bene. Poi voleva tanto bene anche a David [David
Segal, liutaio a New York, N.d.T.]. David lo aveva conosciuto a Cremona, nella
bottega di Francesco Bissolotti, dove Fernando si tratteneva a lungo a lavorare
ogni volta che veniva in Italia, negli anni tra il 1962 ed il 1972. Lui voleva molto
bene anche a Francesco, perché aveva il suo stesso carattere, il suo stesso
amore per la liuteria, c’era una grande intesa fra loro. Quello che Fernando
diceva, Francesco lo assimilava subito. Fernando era molto aperto con lui, come
con tutti; non aveva segreti o gelosie, insegnava tutto quello che sapeva e
continuava a studiare, a cercare di capire, a fare esperimenti.
Lui adorava Cremona. Nel 1937 era appunto là con l’incarico di preparare la
mostra del Bicentenario Stradivariano, mentre io ero a Roma con Gaspare (sono
andata a Cremona soltanto alla chiusura dell’esposizione). In Italia ci siamo
poi tornati nel 1955; io mi sono fermata a Roma con mia madre e Fernando andava
in giro per l’Europa con Wurlitzer in cerca di strumenti. Ci siamo poi riuniti a
Parigi. A Cremona lui è tornato nel 1958 e 1962 e, insieme a me, negli anni a
venire. A Cremona, Fernando incontrava spesso Puerari [Alfredo Puerari, allora
Presidente dell’Ente Provinciale per il Turismo, N.d.T.]. E fu Puerari a
suggerirgli l’idea e a stimolarlo a raccogliere in un libro tutti i suoi studi
e i risultati delle sue ricerche su Stradivari. Con l’aiuto di Puerari e
Dordoni, il libro («I ‘Segreti’ di Stradivari») è uscito nel 1972 ed ha
avuto un grande successo, anche se poi, una volta stampato, Fernando ha trovato
alcune imperfezioni che non ha avuto però il tempo di correggere. Avrebbe
voluto fare la 2ª edizione, con tante aggiunte, ma non ne ha avuto il tempo...
Nel 1972, mentre eravamo a Cremona ed io mi trovavo ricoverata in ospedale per
un intervento chirurgico, il Comune di Cremona insignì Fernando della
cittadinanza onoraria. In ospedale avevano messo un letto accanto al mio e lui
veniva ogni giorno e, come arrivava, tutti i dottori si radunavano a parlare
con lui. Io raccontavo barzellette e li tenevo allegri. Ma il giorno della
cittadinanza onoraria mi sono fatta seria seria e tutti mi chiesero: "Come mai Teresita?
Hanno fatto cittadino onorario il tuo Fernando e tu sei seria invece di essere
contenta." E io: "Hanno fatto cittadino lui, ma sono più cremonese io di lui." "Perché?" mi chiesero. E io: "Voi lo avete fatto cittadino onorario, ma a me hanno dato
quattro litri di sangue, sangue cremonese." E giù le risate...
Ho vissuto molto bene con il mio Fernando, sono stata felice. Era di una
umanità senza limiti. Voglio ricordarlo così, con quest’ultimo fatto: per due
anni ha sacrificato tutti i suoi week-end per andare, insieme a nostro figlio,
in un ospedale ad insegnare la liuteria a tre paraplegici veterani della Seconda
guerra mondiale; lui insegnava la liuteria e nostro figlio aiutava i veterani a
giocare alla palla. Ed è così che Wrona [Anthony Wrona, liutaio a Buffalo,
paraplegico, N.d.T.] ricordando Fernando, un giorno mi ha detto: "Sacconi mi ha
ridato la vita".
Point Lookout, 29 febbraio 1984
Tratto dal libro: «Dalla liuteria alla musica:
l’opera di Simone Fernando Sacconi», Cremona, ACLAP, prima edizione 1985, seconda
edizione 1986, pagg. 13-16 - Italian / English.